Monday, 25 November 2019


"Affioramenti dal Basso", Antonino Saggio, Coffee Break

“Ora la bellezza del termine affioramento è nel suggerire un processo di disvelamento "al contrario". Come se il progetto si debba formare certo attraverso stratificazioni, ma invece che attraverso una modalità "dall'alto al basso" con una modalità dal "basso all'alto". Come un insieme di strati che affiorino, che emergano.”


Il concetto di “layer” nella progettazione architettonica contemporanea è intimamente connesso al termine “affioramento”, nonché alla nozione di “infrastructuring”. Nell’era dell’industrializzazione e della modernità alle architetture era richiesto di assolvere funzioni che fossero essenzialmente monotasking: i diversi strati (edificato, percorsi, verde, spazi aperti), pur se estremamente coerenti tra loro, erano intesi come calati dall’alto piuttosto che affioranti dal basso. Nel mondo industriale le autostrade erano autostrade, le dighe erano dighe, e il loro blackout comportava enormi disagi per la collettività. La città dell’era dell’informazione è chiamata a ripensare se stessa per reindirizzare le spinte progettuali dall’esterno verso l’interno, verso le brown areas che, con il supporto di adeguate infrastrutture, possono essere revitalizzate e divenire catalizzatori di interessi sociali e economici. E’ evidente come il processo progettuale, riguardando i luoghi delle periferie, non può che “affiorare” dal basso. Ma l’“affioramento” non è da intendersi in semplice senso metaforico: le architetture si plasmano nel contesto di appartenenza arrivando persino a confondersi con il suolo e a modificarsi con le risorse naturali, in primis quella idrica. Gli spazi aperti accolgono l’acqua in caso di emergenze (esondazione di fiumi, piogge intense), inondandosi, affiorando e riemergendo. Edificato, percorsi, verde, non sono più layer disgiunti e il confine tra l’uno e l’altro diviene così labile da far rientrare il tutto nel concetto più ampio di “scape”. Il paesaggio architettonico e urbano della contemporaneità necessita di un ristabilimento di connessioni fisiche, sociali, tecnologiche (infrastructuring) con architetture che siano “multitasking”, che operino per “iper-layer”.


BIG U, Manhattan


















Nuove Sostanze. Manifesto della Rivoluzione Informatica

“Le aree si liberano, si cerca un rapporto più stretto con l'ambiente, si pensa alla architettura come ibridazione tra natura, paesaggio e tecnologia, si cercano spazi come sistemi complessi sempre più interagenti perché l'Informatica ha cambiato e sta cambiando il nostro essere al mondo ed ha aperto nuove possibilità al nostro futuro" (Antonino Saggio, Nuove Sostanze. L'informatica e il rinnovamento dell'Architettura)


“Sostanza di cose separate”, questo era il fine cui tendevano gli architetti della “Nuova Oggettività”, ossia una “rappresentazione estetica condivisa” (Saggio) volta a risolvere i problemi del mondo industriale (casa per tutti, dotazione di servizi minimi, zoning funzionale…). Oggi gli orizzonti della ricerca architettonica puntano verso “nuove sostanze”. Lo “urbanscape” guarda alle brown areas per ripensare all’interstizio e riconnettere le aree dismesse, ridando loro dignità e vitalità. La natura è vista non più come risorsa da sfruttare ma diviene oggetto di valorizzazione, integrazione e salvaguardia nonché paradigma della complessità di interazioni cui tendere nella progettazione architettonica. Allo “spazio interno” si sostinuisce lo “spazio sistema”, in cui cadono le frontiere nette tra interno e esterno, edificato e non, spazi serventi e serviti, perché l’architettura “iper-funzionale” nasce “naturalmente” dal contesto con cui è chiamata a confrontarsi, ne segue le linee forza e su esse si conforma.  Tutto ciò è accaduto perché siamo nell’era della “rivoluzione informatica”, al contempo “causa e strumento” dello svilupparsi di queste “nuove sostanze”.


Il concetto mi è sembrato estremamente condensato in una foto, opera di Luigi Ghirri (1943-92): l’artista con le sue fotografie ha immortalato molteplici aspetti del “paesaggio dell’architettura” (così si chiama il catalogo della mostra dedicatagli alla biennale di Milano del 2018). La feritoia come figurazione dell’interstizio, ma anche come collegamento tra parti, collegamento non immediato e razionale, ma evanescente (lo sfondo è sfumato, è luce! Finirà? Sarà un bivio? Da dove entra la luce?). E poi, appunto, la luce, ossia la componente naturale, come parte attiva del progetto. Manca la componente informatica: le foto di Ghirri sono tese più alla scoperta del mondo della comunicazione in senso pubblicitario e delle periferie e dei paesaggi naturali come sede di vitalità; d’altronde la sua scomparsa è avvenuta in un momento in cui la “rivoluzione informatica” stava per esplodere con tutte le sue forze.


Il compito sarà il nostro: essere “prosumers” e non “consumers” dei mezzi informatici a nostra disposizione. Questo ci consentirà di sviluppare a pieno il concetto di “field” affrontato nel laboratorio di sintesi: una trama che con i nostri progetti architettonici siamo chiamati a intessere al fine di instaurare continue relazioni con il contesto, con le sue componenti visibili e meno visibili o addirittura non visibili. Vi è una grossa componente di soggettività ma tutto parte dal contesto e dalla volontà di interpretarne aspetti considerati rilevanti per generare un “rapporto univoco” tra suolo e architettura. La complessità del progetto risiederà proprio nella complessità di tale trama.  

Per vedere altre foto dal catalogo della mostra allego link di riferimento https://www.domusweb.it/it/architettura/2018/07/10/luigi-ghirri-il-paesaggio-dellarchitettura.html